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Io mi ricordo

Scrivevo in un post precedente che, anche se oggi è facile reperire informazioni sui luoghi che incontriamo viaggiando, è solo attraverso l’esperienza che possiamo interiorizzarle e trasformarle in una conoscenza davvero nostra. Però ripensandoci credo che neppure l’esperienza sia sufficiente.
E’ necessario uno spazio di riflessione e una fase di rielaborazione individuale affinché il viaggio possa fissarsi nella nostra memoria oltre a lasciarci una traccia sensoriale di colori, suoni, sapori, odori e percezioni. Perché più della capacità di pensare e di sentire, forse l’essenza del nostro essere è proprio la memoria di ciò che abbiamo pensato e sentito. Come scriveva Norberto Bobbio, “tu sei… i ricordi che hai conservato e non hai lasciato cancellare, e di cui tu sei rimasto il solo custode”. La nostra memoria personale è un pozzo cui possiamo sempre attingere, un giardino segreto dove perderci, un viaggio dentro noi stessi e il nostro vissuto che sta a noi rendere il più appassionante possibile.

La memoria è però bugiarda, perché selettiva e non sempre fedele ai fatti. Non è necessario uno strizzacervelli per sapere che tutti noi tendiamo a riscrivere la nostra storia abbellendone alcuni aspetti e trascurandone altri. Lo stesso avviene con i viaggi. Forse è per questo che un viaggio, anche se vissuto in compagnia di altri, diventa davvero nostro, unico e irripetibile solo quando lo ricordiamo.
Ma come “tenerlo in memoria”? Le emozioni, le riflessioni e le immagini di un viaggio rimangono in genere nella sfera privata, al massimo ne nascono diari, carnet o album di fotografie poi dimenticati dentro un cassetto. Più raramente diventano un libro dato alle stampe, trasformandosi così, con un po’ di fortuna, in memoria collettiva, una memoria più vasta, in fondo la storia stessa dell’uomo. Forse è per questa capacità di allargare i confini della memoria all’esterno della mente umana e al di fuori dei singoli gruppi che i libri sono per molti quasi un oggetto di culto, una sorta di feticcio di una religione universale, con i suoi dei e i suoi santi, i suoi profeti e i suoi sacerdoti, le sue ricorrenze, le sue celebrazioni e autocelebrazioni.
In questa ultima manciata di anni, un tempo brevissimo se paragonato alla storia millenaria dell’uomo, c’è però stata una nuova rivoluzione, dopo quelle dell’invenzione della scrittura e poi della stampa. Internet ha cambiato le regole del gioco. La memoria collettiva oltre che “esterna” è diventata anche “artificiale”, acquisendo la capacità di immagazzinare una quantità immensa di informazioni in sterminate banche dati. E’ una memoria in continuo divenire e sempre meno individuale, così smisurata che diventa impossibile trattenerla dentro i limiti di un cervello umano o dei libri stessi. Così come è spesso impossibile ricostruirne la provenienza o anche semplicemente cancellarla: appena creata non è già più nostra, catturata da potenti motori di ricerca.
Se non ne siamo più i custodi e i padroni, è però più facile diventare anche noi un frammento di questa memoria collettiva. Possiamo raccontare l’esperienza vissuta per condividerla, per “tenerla in memoria” e sottrarla così alla precarietà del ricordo individuale, al buio di un cassetto o alla polvere di uno scaffale. Perché alla fine sopravvive solo quel che diventa patrimonio comune attraverso la scrittura, la fotografia, il disegno o la musica o attraverso tutte queste cose insieme. Il resto è “della stessa materia di cui sono fatti i sogni” e di cui sono fatti gli uomini.

Una trilogia per riflettere: “Memoria del Fuoco” di Eduardo Galeano, il riscatto della memoria sequestrata di tutta l’America Latina.

Pubblicato su il reporter