Passaggio aereo in mano, mi imbarco dal Terminal 1 di Malpensa nella nebbia di una mattina d’autunno. Il cielo terso del Marocco mi accoglie dopo un breve volo, la temperatura è mite e intorno c’è un sentore di primavera. Ancora tre ore di autobus e mi appare Essaouira, l’antica Mogador, protesa sull’oceano ma avvolta da una luce mediterranea, difesa dai bastioni della Skala ma aperta ai venti e al mondo.
Un anziano si avvicina con un carretto per trasportare il mio bagaglio dentro il dedalo di viuzze della medina. Attraversiamo un’antica porta che interrompe le possenti mura di terra color ocra. “Come si chiama?”, gli chiedo per iniziare a orientarmi. “La Petite Bab” mi risponde. Il riad dove dormirò nei prossimi giorni è lì accanto e questa porta diventerà il mio passaggio abituale. Salgo sulla terrazza del riad per dare un primo sguardo alla città dall’alto. Intorno i tetti piatti imbiancati a calce: una donna raccoglie il bucato, altre due si scambiano un saluto a distanza… Ho con me la macchina fotografica, ma Jasmìna, accogliendomi nel riad, mi ha raccomandato di non scattare foto alle terrazze per non violarne l’intimità. Ripenso alle pagine de “La terrazza proibita” di Fatima Mernissi: meno di un secolo fa queste case erano harem e i tetti territorio femminile nascosto alla vista di estranei. Punto l’obiettivo verso il cielo e guardo le nuvole passare: “Chi si ferma oggi ad osservare dove vanno le nuvole? Perdersi a guardare è fondamentale”, scriveva Mimmo Jodice.
Giorno dopo giorno mi perdo a guardare. Al porto rimango ore a contemplare le migliaia di gabbiani che riempiono il cielo dei loro voli e di stridii acuti finché il sole non si immerge nella massa liquida dell’oceano. La sera, seduta al bar della grande piazza Moulay Hassan, osservo la gente passare mentre sorseggio un dolcissimo tè alla menta.
E’ trascorsa una settimana, oggi lascerò Essaouira, ma prima di salutare la città, ritorno alla Petite Bab. Sono le otto del mattino ed è un continuo via vai di persone, sospinte, come nuvole nel cielo, dal vento delle necessità quotidiane. Mi fermo davanti alla porta all’incrocio di tre vie, sistemo la macchina sul cavalletto e inizio a scattare foto a chi entra e a chi esce dalla medina. Le ombre che si allungano nel fascio di luce che attraversa la porta mi annunciano chi arriva da est, rumori di passi e chiacchiere anticipano l’improvviso apparire dietro l’angolo di chi viene da ovest. Un cane mi guarda tenendosi a distanza, qualche curioso si avvicina, bambini in divisa si affrettano verso la scuola, uomini nella tipica djellaba vanno al souq ad aprire bottega, altri vestiti all’occidentale si dirigono in ufficio, donne avvolte nel tradizionale haik e con il volto nascosto dal velo scivolano rapide come fantasmi, altre tornano dal mercato con le sporte appesantite, una signora francese porta il cane a fare pipì, pescatori rientrano dopo la notte in mare, un turista con valigia esce alla ricerca di un taxi, un rumore di zoccoli annuncia l’inatteso arrivo di un cavallo…
Passaggi, mondi diversi che si incrociano, storie solo intuite, ma che formano un puzzle capace di raccontare la città.
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Per approfondire “Timbuctu” di Marco Aime: una città spiazzante, un melting-pot di razze dove l’autore si ferma ad osservare se stesso, gli altri, l’idea stessa di viaggio.