Vi è mai capitato di provare disagio e senso di colpa nel viaggiare in paesi del Sud del Mondo? Certamente sì. Così come è inevitabile durante i nostri viaggi toccare con mano i cambiamenti se non addirittura i disastri operati da un turismo fatto di grandi numeri in ambienti naturali e umani fragili e spesso poveri. Compromissione dell’ecosistema, sfruttamento di manodopera precaria, scarso ritorno di reddito sulle economie locali, banalizzazione delle culture tradizionali per soddisfare la domanda turistica.
Senza volere attribuire l’intera responsabilità dei cambiamenti al turismo, il ruolo che vi gioca non è di poco conto. Alla fine anche il turismo diventa vittima di se stesso, consumando ciò che promuove, declassando progressivamente un luogo da meta d’élite a destinazione di massa fino ad abbandonarlo al suo degrado per sostituirlo con destinazioni sempre nuove. Alla fine ancora una volta le vere vittime sono gli abitanti e l’ambiente.
Quale è la risposta a tutto ciò di noi, appassionati di viaggio, ma anche consapevoli delle conseguenze delle nostre azioni e attenti all’effetto del nostro passaggio nel mondo? La nostra semplice presenza influisce sull’ambiente e lascia una traccia. Piccola, quasi invisibile all’inizio, poi giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, turista dopo turista, sempre più grande fino a trasformare radicalmente luoghi e culture. Se modificare è inevitabile, si può cercare di limitare gli effetti negativi e di potenziare quelli positivi, salvaguardando l’ambiente, permettendo alle comunità locali di beneficiare del turismo e ai turisti di vivere esperienze di qualità? Qualcuno ci ha provato e ha dato vita a un movimento di turismo responsabile, un fenomeno ancora marginale, ma capace di influenzare governi e tour operators e di sensibilizzare i viaggiatori.
Meglio però liberarsi da alcune illusioni. Nei paesi più poveri siamo inevitabilmente stranieri anche se viaggiamo in modo semplice e spartano, anche se cerchiamo di non comportarci da estranei. L’asimmetria nei confronti della popolazione ci condanna a una sorta di apartheid, cioè a un contatto superficiale o addirittura fittizio con i locali. Siamo e rimaniamo spettatori curiosi e un po’ voyeur, in genere poco propensi a farc coinvolgere dalla realtà del posto, magari alla ricerca di esperienze “autentiche”, ma sempre a tempo determinato e garantendoci i nostri spazi.
Viaggiatori o turisti, siamo comunque tutti testimonial di un Occidente benestante e consumista, di fatto rappresentiamo il 18% della popolazione mondiale che dispone dell’83% del reddito (in questi casi i numeri sanno essere più incisivi delle parole). In fondo noi tutti viaggiamo soprattutto per noi stessi… forse la vera consapevolezza è semplicemente questa. E, per non essere soltanto dei “turisti per caso”, basterebbe una parola, rispetto.
Per continuare la riflessione, questa volta non segnalo un libro ma un post scritto ormai un anno fa, prima delle partenze estive “V come Vademecum”.
A tutti buona strada, Anna