Articolo di Anna Maspero pubblicato su La Compagnia dei Viaggiatori 3/08. Riflessione su come è cambiato il viaggio, attraverso stralci di scrittori di ieri e di oggi: la parola all’accusa e alla difesa…
Ero a Cuneo alla manifestazione “Scrittorincittà 2007” a confrontarmi con altri scrittori sul tema: “In questo preciso momento” e in particolare su come è cambiato il viaggio. E a Verucchio alla “Scuola del Viaggio” fra tanti giovani a ricordare la ‘Summer of love’ e la ‘rotta hippie’ di 40 anni fa. Inevitabile fare confronti e riflettere sul passato, anche con un po’ di inevitabile nostalgia e rimpianto per i viaggi degli anni ’60 e ‘70, “off the beaten track“, che duravano mesi e seguivano più una direzione che un itinerario. Scrivono Tony e Mureen Wheeler raccontando del loro leggendario viaggio in Asia nel 1972: “In fondo alla strada svoltammo l’angolo e puntammo verso l’India. O comunque da quelle parti”.
L’11 settembre ha segnato una battuta d’arresto alla marcia inarrestabile del turismo, frammentando il mondo in nuove geografie, rialzando barriere fra religioni e culture nel momento in cui si abbattevano molti dei confini fra le nazioni. Altri e più profondi sono stati però i cambiamenti che hanno segnato il mondo del viaggio, dovuti soprattutto all’avvento del turismo di massa e al diffondersi della globalizzazione. Cambiamenti che hanno portato molti giornalisti e scrittori a proclamare la “morte del viaggio”.
L’accusa.
Evelyn A. Waugh, incarnazione del perfetto viaggiatore inglese snob, negli anni ’30 scriveva in Quando viaggiare era un piacere: “Sono stato, più semplicemente un giovane tipico del mio tempo: si viaggiava perché ci veniva naturale farlo. Sono contento di averlo fatto quando viaggiare era un piacere”. Sulla stessa linea Claude Lévi Strauss, che nel 1955 in Tristi Tropici scriveva: “Così mi riconosco, viaggiatore, archeologo dello spazio, che invano tenta di ricostruire l’esotismo con l’aiuto di frammenti e rottami. […] Vorrei esser vissuto al tempo dei “veri” viaggi, quando offrivano in tutto il suo splendore, uno spettacolo non ancora infangato, contaminato e maledetto. […] In fin dei conti, sono prigioniero di un’alternativa: o viaggiatore antico, messo di fronte a un prodigioso spettacolo di cui quasi tutto gli sfuggiva ─ peggio ancora, gl’ispirava scherno e disgusto ─ o viaggiatore moderno, in cerca di vestigia di una realtà scomparsa. Nell’un caso e nell’altro, sono sempre in perdita”. Sulla stessa linea Lawrence Osborne, scrittore inglese perfetto epigono di Waugh. Nella prima pagina del suo ultimo libro, Il Turista Nudo, recentemente pubblicato, scrive che “Il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare. Ormai l’intero pianeta è diventato un’istallazione turistica, e ovunque si vada resta in bocca il saporaccio del simulacro”. Teorizza l’ovunquismo: “Tutto somiglia a tutto… il mondo diventerà un unico, sterminato resort interconnesso, l’Ovunque”. Dichiara la morte dell’avventura: “la dimensione interiore dell’avventura ce la si può proprio scordare”. Quelli della Lonely Planet sono definiti ‘bacchettoni’, il National Geographic ‘increscioso’, i turisti…beh, andiamo oltre. E questo anche se il nostro autore collabora con riviste americane di viaggio, ne trae guadagno e quindi, come lui stesso ammette, ha una lunga collusione con il turismo globale. Fra i giornalisti gli fa eco Sandro Viola che dalle pagine di Repubblica (14 agosto 2004) scrive: “Da dove viene la spinta a mettersi in viaggio? Ancora mezzo secolo fa, gli impulsi più ricorrenti e irresistibili erano tre. Primo, la fuga (la parola inglese, escape, è più bella). Secondo, l’anelito a una diversità. Terzo, la ricerca dei resti, delle ombre di “un’età dell’oro” ormai tramontata ma non tanto remota, così che viaggiando lì dove essa era fiorita fosse possibile riviverne, sia pur vagamente, l’atmosfera. Bene, conviene chiarirlo subito: di queste ragioni ne resta ormai una sola, la fuga. …Andare alla ricerca di una diversità, questo no: questo è impossibile, perché ormai non esistono più diversità. E ancora più vano sarebbe illudersi di poter trovare da qualche parte un mondo appena svanito, ma le cui orme e memorie irradiano ancora una suggestione, un fascino. …Tutto è implacabilmente uguale. Non era così. Già in Europa, tutto era diverso da un paese all’altro: le monete, gli orari dei pasti, le prostitute e le prese a muro per la radio o il rasoio elettrico”.
Abbiamo dato la parola all’accusa. Ora diamola alla difesa e la miglior difesa è certo quella di Claudio Magris nel suo bellissimo L’infinito viaggiare: “La frase dello scrittore inglese –Quando viaggiare era un piacere-, ribadisce il luogo comune secondo il quale la società di massa col suo turismo anch’esso massificato, la televisione con gli scenari esotici banalizzati, e portati in casa e il livellamento generale del mondo, avrebbero distrutto la scoperta e l’incontro del nuovo, l’avventura, il gusto individuale del vagabondare, l’imprevisto, la possibilità dell’esperienza originale. La prima doverosa obiezione è che la società di massa ha reso quel piacere accessibile a qualcuno che ne era escluso senza esserne necessariamente meno degno dei pochi che ne usufruivano un tempo. […] Ma soprattutto viaggiare è ancora un piacere, o almeno può esserlo. L’imprevisto, l’avventura, la seduzione, il nuovo si possono trovare a ogni passo, in ogni odissea, in ogni viaggio nelle lontananze o fra le mura di casa… L’intelligenza deve sempre valutare, distinguere e certo denunciare la barbarie morale e intellettuale, indubbiamente presente in numerose manifestazioni della società di massa. Ma sarebbe sterile non avvertire l’arricchimento creativo, fantastico, percettivo che può giungere dai mutamenti del mondo e dalle nuove possibilità che essi offrono”.
Personalmente non ho nostalgia di quando in Gran Bretagna non esisteva il sistema decimale… Se una presa della corrente italiana funziona anche lì, beh, la cosa non mi turba. E se, grazie alla globalizzazione, con l’inglese si riesce a comunicare un po’ dovunque, confesso che non mi dispiace (il che non significa certo auspicare la scomparsa delle altre cinquemila lingue diverse che sopravvivono sul pianeta…). Spero anche che si possa presto colmare il digital divide che separa il mondo sviluppato da quello in via di sviluppo. Né il nostro egoismo di appartenenti al primo mondo, né il nostro desiderio di difendere l’integrità altrui, dovrebbero interferire con il diritto di ciascun popolo di scegliersi il proprio modello di felicità e di benessere. Quindi, bando ad amarezze e nostalgie per i tempi in cui il viaggio era “vero viaggio”, in cui i selvaggi erano selvaggi e la fuga dall’Occidente ancora possibile. Basta con i tentativi patetici di giornalisti e turisti di professione di distinguersi dagli altri comuni turisti. Meglio abbandonare il gioco ambiguo e vagamente razzista del “vero viaggiatore”, solitaria figura dotata di alta autostima e profonda insofferenza per gli altri turisti-viaggiatori, da cui cerca accuratamente di sfuggire, forse perché teme di scoprirsi poi non tanto diverso. Il viaggio, per gli abitanti del mondo sviluppato, non è più l’eccezione per gli happy few, ma la norma per un numero sempre maggiore di persone. Viaggiare è oggi più semplice, grazie a trasporti efficienti e voli low cost, internet e guide. Ma certo più difficile è cogliere le diversità e proprio lì si vede il valore del viaggiatore. La differenza fra turista e turista (escludendo dalla categoria i vacanzieri che fanno una scelta, legittima, all’insegna del puro relax) si gioca non più sul dove ma sul come si viaggia. Curiosità, umiltà, attenzione, rispetto, responsabilità sono le parole e i valori per costruire un nuovo tipo di turismo attratto non più dall’illusione di scoprire luoghi vergini e popolazioni “autentiche”, ma da un mondo in rapido e inevitabile mutamento, un mondo meticcio dove le culture, così come le “razze”, si incontrano, si scontrano e si mescolano. Una partita questa, dove necessariamente qualcosa si perde e qualcosa di nuovo, ma altrettanto “autentico”, si crea. Smettiamo di mitizzare un passato forse fin troppo idealizzato. Continuiamo, come facevano i giovani degli anni ‘60, a viaggiare off the beaten track, accettando di perderci per le strade del mondo, abbandonandoci alle suggestioni dei luoghi e degl’incontri per riscoprirci capaci di stupore ed emozioni. E allora, forse, faremo scoperte inattese, anche se non casuali. L’inglese ha una parola speciale e dal suono magico per indicare questa attitudine di apertura al nuovo e all’imprevisto, serendipity. Un concetto difficile da rendere nella nostra lingua, ma che sarebbe bello tradurre nella nostre vite. Il viaggio è una grande occasione, l’importante è non sprecarla.
A.M.