Il film/documentario di Wim Wenders su Sebastião Salgado è straordinario. C’è tutta la bellezza e la forza tragica delle foto di Salgado, un bianco e nero che non scade mai nel morboso, ma è sempre intriso di delicatezza, di compassione nel senso vero del termine, “soffrire con”. A lui “importava davvero della gente”, come dice Wenders. La sua regia quasi scompare dietro alla grandezza di Salgado che si racconta e racconta il cammino dell’uomo attraverso l’ultimo mezzo secolo, quello che per la mia generazione è stato un tempo di pace solo perché i conflitti e gli eccidi sono avvenuti fra esseri umani “di serie B” in un altrove che non è sotto i nostri occhi. E anche quando erano più vicini a noi, nel cuore d’Europa, ci hanno solo sfiorato, sepolti in fretta in una colpevole indifferenza.
Il film è una cruda denuncia della ferocia dell’uomo: “Siamo animali feroci noi umani, la nostra è una storia di guerre”. Ci lascia in silenzio e sconvolti. Anche Salgado esce distrutto nell’animo dalla testimonianza del genocidio del Ruanda. Poi la terra, la sua terra, e la forza della moglie Léila lo salvano. Il suo ultimo lavoro, Genesi, da cui la straordinaria mostra che a Milano ha chiuso da poco i battenti, è la resurrezione, un atto d’amore per il mondo e la sua diversità, il testamento di quest’uomo che è alla fotografia ciò che Ryszard Kapuściński è alla scrittura. Un gigante.
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Anna
© Sebastião Salgado/Amazonas Images