Viaggiare sì, ma dove. Spesso pecchiamo di eccessiva superficialità nella scelta delle nostre mete, sedotti da un immaginario costruito a misura di turista, ma che ha poco a che fare con il paese reale. Iniziamo il nostro giro del mondo partendo dall’Africa, un continente che da sempre esercita un grande fascino su esploratori e viaggiatori.
“L’Africa è vasta, una massa terrestre e non una nazione. Non esiste una sola Africa. Da cima a fondo esistono tante Afriche tra di loro distinte” scrive Eddy L. Harris. La sua essenza è la varietà di culture e paesaggi, popoli e lingue, riti e miti. Impossibile darne un’unica definizione. Ma al di là di queste diversità, esistono due Afriche, la nostra e la loro. Raramente si incontrano, un po’ come in Libia le carovane di fuoristrada dei turisti sfiorano le rotte dei migranti senza vedersi. Karen Blixen parlava della “mia Africa” e lo stesso possiamo dire per molti appassionati di viaggio. Per loro l’Africa è l’avventura in fuoristrada sulle piste dei parchi o dei deserti, l’incontro con le antiche culture dei villaggi dogon o con le superstiti etnie “primitive”. Attraversandola spesso non percepiamo la grande povertà che circonda quella che gli antropologi definiscono la “bolla ambientale” in cui viaggia il visitatore. Ma la verità è che la “loro Africa”, quella di chi ci vive, ha il primato della miseria, conta – secondo i dati del Forum sociale Mondiale di Nairobi del 2007 – 34 dei 50 paesi meno sviluppati, 35 milioni di sieropositivi e malati di AIDS su 40 milioni nel mondo e 1/3 della sua popolazione soffre la fame. Denutrizione, mortalità infantile, carenza di scuole e ospedali, guerre efferate, bambini-soldato, slums, megalopoli spaventose, perdita d’identità, criminalità, emigrazione, disastri ambientali…
Il “mal d’Africa” è una medaglia con due facce. Se l’Africa è anche questa e se è vero che decine di canali televisivi tematici ci raccontano tutto degli animali selvaggi, che l’incontro con le ultime etnie si riduce a esotismo a buon mercato, che le tradizioni sono state folclorizzate isolandole dal loro contesto rituale, che tecnologia e navigatori satellitari hanno tolto all’avventura il suo sapore, allora perché il continente nero continua a sedurre i viaggiatori? Complicato rispondere, perché l’Africa più di ogni altro paese è un’esperienza fisica, da vivere sulla pelle e difficile da esprimere a parole. L’Africa risveglia i sensi, si espone impudica e seducente, non ha fretta, cammina, aspetta, si adatta. Ha non una, ma tante storie, un po’ come i suoi oggetti che hanno molte vite, riciclo dopo riciclo. Mescola saggezza e magia, umanità e divinità. Lì si incontrano una voglia di vivere e una felicità quasi incomprensibili in base ai nostri parametri di benessere. Ma in luoghi dove manca l’essenziale e ci si arrangia con poco più di un dollaro al giorno, forse si è felici semplicemente di sopravvivere. D’altra parte la logica africana non è la nostra. E la nostra non è la loro. Un antropologo mi raccontava che i suoi amici maliani erano rimasti sconvolti dal fatto che noi occidentali ci mettiamo a dieta per dimagrire e che abbandoniamo i nostri anziani negli ospizi. Un’ovvietà che apre una voragine fra due culture. Certo, anche in Africa, come in tutto il resto del mondo, i cambiamenti sono violenti e dirompenti e la globalizzazione mescola e confonde “autentico” e “contaminazioni”. Forse però gli africani riescono più di altri popoli a far convivere tradizione e modernità, vecchio e nuovo. Forse il segreto dell’Africa è che ha qualcosa di speciale, qualcosa per cui trovo una sola parola adatta, anima.
Per approfondire: Ryszard Kapuscinski, “Ebano” di Feltrinelli e Alberto Salza, “Niente. Come si vive quando manca tutto” di Sperling & Kupfer.
A.M.
Pubblicato su il reporter